prof M. Lepore

 

PALAZZO  DE GREGORIO

Al n. 5 di via Mentana si erge il magnifico palazzo della famiglia DE GREGORIO, il cui ultimo rappresentante fu l’Avv. D. Domenico. L’immobile, pur gravemente danneggiato dagli agenti atmosferici e dal sisma del 23 novembre 1980, conserva intatta la sua struttura architettonica esterna ed interna. Un magnifico portale e l’originaria struttura lo rendono unico nel suo genere e di rilevante interesse architettonico e storico. L’attuale struttura è, però, solo una ristrutturazione di una realtà preesistente. Nelle forme attuali risale agli inizi del 1700, quando la preesistente unità fu ristrutturata per adeguarlo alle esigenze della famiglia.

Nello “STATUS ANIMARUM” del 1728 l’unità immobiliare è censita al n. 221 del “Piano di Donna Cecilia”, di proprietà di Nunzio di Grigorio, di anni 79, figlio di Lovito, di Capracotta e di Locrezia Rinaldi d’Orsara. Vi abitava con lui la nipote Anna Fattore (figlia di Leonardo Antonio e Margarita Spadaro), vidua di Nicolò De Gregorio, e i figli Gioseppe e Niccolò. Pochi anni dopo, nel 1737, la troviamo censita al n. 228 a nome della vedova Anna Fattore, che vi abita con il figlio Gioseppe Di Gregorio, la moglie Catarina D’Aloia (figlia di Lorenzo) e la piccola Lorenza Di Gregorio. Forse in questo periodo, proprio con Gioseppe, cominciò la definitiva sistemazione. Ad uno sguardo attento non sfugge l’originario ampio respiro: il prospetto anteriore sembra interrotto da manomissioni posteriori. Nel 1741 ad abitare nel superbo palazzo è Domenico, figlio di Gioseppe, che ritroviamo anche nel Catasto Onciario del 1753,  nel 1783  D. Michele, figlio di D. Domenico e nel 1792 D. Ferdinando, figlio di quest’ultimo. Nel XIX secolo è un punto di riferimento per il ruolo importante avuto dalla famiglia nella comunità. La decadenza della famiglia, avvenuta nella prima metà del XX secolo, coincide con quella dell’immobile. Donato dall’Avv. D. Domenico al Capitolo di S. Nicola di Bari, viene abbandonato ed esposto all’opera disgregatrice degli elementi naturali e dell’uomo. Nel tempo ha subito notevoli danni alle volte con conseguenti infiltrazioni di acqua. L’interno conserva ancora intatta la sua originaria struttura: uno stupendo scalone permette l’accesso al piano superiore, dove è ancora possibile ammirare parte degli affreschi e delle decorazioni. Sul lato che si affaccia sul torrente Canale Grotti, vi è uno stupendo giardino, ora totalmente occupato da pini, che permette di godere l’ampio panorama che si apre verso ovest.

 

L’ APOLLO  DI  BRONZO  DI  ORSARA

Proprio in questi giorni in località Cervellino, Fontana dell’Ospedale, luogo da cui provengono l’epigrafe riportata dal Mommsen nel C.I.L., la statua acefala custodita nel museo diocesano, è venuto alla luce uno stupendo esemplare di bronzetto votivo raffigurante Apollo pitico, l’Apollo che uccide il serpente avvinghiato ad un tronco. Il bronzetto, in ottimo stato di conservazione, è , però, privo dell’avambraccio sinistro e, forse, anche del tronco intorno a cui era attorcigliato il serpente. Il taglio degli occhi e la capigliatura lo ricollegano senza ombra di dubbio alla Magna Grecia, a quei coloni che su queste balze ebbero contatti con il popolo dauno, prima, e con i sanniti poi. Esso inoltre, ci dà una ulteriore conferma che nella zona era venerato in maniera particolare Apollo e che vi era un tempio. I bronzetti votivi, infatti, venivano collocati nei templi. Questo ritrovamento riveste una particolare importanza perché è strettamente legato agli altri ritrovamenti: l’ara di Apollo, la scritta ellenistica e l’OYNOKAY  rinvenuto a ridosso dell’abitato.

Ciò non solo avvalora l’ipotesi di un’origine antica di Orsara ma ci permette di sperare in ritrovamenti ancora più importanti se si sensibilizza l’opinione pubblica e se si avvia una campagna di scavi in alcune zone del territorio, non ancora profanate dalla mano dell’uomo.

 

LA CINTA MURARIA

Il paese, che molto probabilmente risale ad epoca assai remota, fu fondato su un pianoro circondato da tre torrenti che ne costituivano la difesa naturale contro gli assalti dei nemici. Ad est scorre il Canale Catella, proprio a poca distanza dalla cinta muraria, che ancora si erge con le sue maestose torri, ad ovest scorre il Canale Botte e a Nord il torrente Canale della Grotta, nel quale i primi due confluiscono chiudendo la magnifica difesa naturale con un notevole dirupo.

A sud le mura di cinta e il terreno scosceso chiudevano l’abitato come una sorta di castello. I resti delle mura, così come li possiamo ammirare, sono indubbiamente dell’alto medioevo. Di esse, però, abbiamo notizie antecedenti in vari scritti. Secondo una leggenda, comune a quasi tutti i centri della Daunia, Orsara sarebbe stata fondata da Diomede durante le sue guerre contro gli elementi indigeni. Egli vi costruì il castello fortificato per tenervi i suoi depositi e farvi soggiornare i compagni che avevano bisogno di curare le ferite riportate in guerra. Secondo l’Avv. Cotugno durante la guerra punica, e precisamente nel periodo in cui Annibale si accampò su monte Calvello, i consoli romani T. Varrone e L.P. Emilio posero un presidio avanzato in Orsara e per rafforzarne le difese costruirono le torri e la cinta muraria. Probabilmente su vecchie fortificazioni fecero erigere delle difese per avere a disposizione luoghi fortificati entro cui rifugiarsi in caso di pericolo. Lo stesso T. Livio d’altronde afferma che”… Fabius per loca alta agmen ducebat modico ab hoste intervallo, ut neque omitteret eum neque congrederetur. Castris nisi quantum usus necessarii cogerent, tenebatur miles…” prima che”…ex hirpinis in Samnium Transisse (transit) …”. Pare logico quindi supporre che la catena di fortificazioni servisse ad isolare il nemico ma anche per avere un rifugio sicuro contro eventuali attacchi nemici. Entro le mura si sviluppò una piccola comunità che accolse anche parte delle popolazioni dei vicini Casali. D. Domenico Rosati, Vicario Capitolare di Troia, nello scrivere gli” STATUTI o CAPITOLARI DEL CLERO DI ORSARA” scrisse nella prefazione la storia del paese. Egli ritiene antichissima la chiesa di Orsara, edificata al tempo delle guerre civili (VII sec. d.C.): “…Orsara fu costretta a forma di castello, ristretta e murata, con bellissime torri, cinta e ciò perché fu rifugio e scampo di soldati, un sicuro asilo di piazza d’armi e fu costruito un grande ospedale dove si portavano i soldati invalidi…”.

Una riprova che il paese fosse stato cinto da mura già da tempi remoti si ha anche dalla denominazione di “Castrum Ursariae”.

Il Prof, Michele Cappiello nel suo libro “Appunti per una Cronistoria di Orsara” curato e pubblicato postumo dalla Preside Prof.ssa Ileana Cappiello, afferma che gli Orsaresi presero per loro protettore S. Michele r gli dedicarono lo Speco, esistente extra moenia.

Lo stesso Lorenzo Giustiniani chiama il nostro paese Castello e fa risalire la chiesa di Orsara ai primi tempi del Cristianesimo. Le torri sarebbero poi state fortificate dai Longobardi per farne un baluardo contro i Bizantini.Quando l’imperatore d’oriente Costante II distrusse Troia nel 663 una parte dei suoi abitatisi rifugiò fra le mura di Orsara. La cinta muraria aveva bellissime torri a base rettangolare e intorno vi erano degli affossamenti che rendevano inaccessibile il paese. Il Del Giudice, nel parlare dello scontro tra Greci e Normanni, avvenuto nel 1016 afferma che “…le mosse dei Longobardi (alleati dei Normanni), fortificati in Orsara, furono per la così detta via denominata Guardiola…”.

Un altro riferimento alla cinta fortificata lo si ritrova nel 1100, quando fu edificata la Chiesa della Madonna della Neve extra moenia vicino al canale Catella che lambiva quasi le torri. Anche nel 1320, quando i casali di Ripalonga e Crepacore furono abbattuti e incendiati, c’è un sicuro accenno alla fortificazione allorché ai suoi abitanti fu ordinato di radunarsi fra le mura di Orsara (14 bis Jannacchino). E’ nel 15462, però, che questo possente baluardo assolve ad un impegno decisivo per l’Università di Orsara. Il 16 agosto dello stesso anno “… le milizie aragonesi si erano dirette verso Orsara, spostando tutto l’apparato bellico (comprensibile solo con una valida fortificazione), nella speranza d’indurre il duca G. D’Angiò e il Piccinino a battaglia campale con l’assedio della nostra città, loro amica, e insieme per non lasciarsi nemici alle spalle, gli Orsaresi vennero a patti a queste condizioni:…si sarebbero arresi,e quindi avrebbero aperto le porte, se nel giro di quattro giorni non fossero giunti i soccorsi da parte angioina”.

Il 5/10/1712 all’esterno di una delle porte cittadine avvenne un terribile fatto di sangue:”Il prete Dionigio Spadaio fu ucciso fuori porta S. Pietro con un colpo di pistola”.

Ma da quante porte si poteva accedere nel paese?

Le fonti storiche e quelle fotografiche ci dicono che ne erano quattro.

Porta S. Pietro

Porta S. Giovanni (poi S. Domenico)

Porta di Greci (o porta Aecana?)

Porta Nuova

La prima si apriva là dove comincia Corso della Vittoria , la seconda (scomparsa all’inizio del secolo scorso) all’inizio di via S.Rocco attaccata alla chiesa di S.Giovanni Battista, la terza , tuttora esistente, alla confluenza di Via Serg. G. Volpe con via Trento e la quarta ubicata in via Napoli,(l’attuale strada di collegamento tra via C. Alberto e via Indipendenza, proprio laddove nel XVII secolo vi era l’abitazione della famiglia Scalzi). A queste probabilmente bisogna aggiungerne un’altra e che la tradizione ci ha conservato come “Portella delle Monache”, che quasi certamente si apriva di fronte alla chiesa della Madonna della Neve. Nel 1788 l’Amministrazione Comunale paga le spese per “…la sterratura della Porta di S. Pietro e relativo mondezzaio”.E’ il segno evidente di un notevole abbandono e degrado della cinta muraria in alcuni punti. Poco più tardi, nel 1793(1723?), una lapide, posta sull’architrave di un’abitazione di Via Mentana ricorda ai cittadini”…In esecuzione dei reali Ordini non permesso sia a persona alcuna di buttare l’immondizie vicino alle case dell’abitato di Orsara se non in distanza di passi 5001(?) trenta docati per cont. Ed altre A.D. 1793(1723?)”.

Era un evidente segno dell’abbandono in cui versava il paese tutto ed in particolare il prezioso patrimonio delle mura troppe volte sottoposto a scempi e ridotto a ricettacolo d’immondizie. Nonostante tutto, però, nel 1830, il 10 settembre, il Sindaco di Orsara afferma che dell’antico nucleo militare del paese esistevano le mura e parte delle torri con fossati che rendevano in passato il luogo inaccessibile alle invasioni esterne. Il problema delle mura dovette trovare dei validi difensori se nel 1862 l’Amministrazione Comunale decise d’intervenire per restaurarle. L’incarico venne affidato al Perito Calabrese e i lavori all’appaltatore Silvestro Marino per la somma di Lire 397,17.

Ormai il paese aveva cominciato ad estendersi al di là del perimetro difensivo e lo sviluppo caotico e dissennato finì col produrre danni irreparabili: alcune torri furono inglobate nelle abitazioni. Leggendo l’art. 13 del Capo Quinto del REGOLAMENTO EDILIZIO del 1873 possiamo farci un’idea precisa della situazione del paese e del complesso delle mura in particolare. E’ pregio del Regolamento, infatti, descrivere il PERIMETRO del paese:”Il perimetro del Comune è determinato a Settentrione da una cinta di mura che, partendo dall’antico Largo del Castello, si estende e si congiunge fino alla facciata esterna e settentrionale del Conservatorio. Di là è delimitato da una continuazione di casamenti che guarda Ponente, siti nella collina che s’innalza al di sopra del sottoposto Torrente, e che prende il nome di Grotta di S. Michele, e, prolungando più in basso, di Granauro e, più in là  a Mezzogiorno, di Fontana Vecchia ed indi, ascendendo la collina sovrastante, di Borgo Tufara, e, più in sopra, della niviera e verso oriente si estende nella strada S. Maria delle Nevi, nella sovrapposta strada delle Fontanelle. La detta strada di   S. Maria  delle Nevi, deviando verso settentrione, si congiunge colle vecchie mura di cinta del Largo Castello”.

Porta ECANA

Siamo, si può dire, all’epilogo. Il paese stava estendendosi e delle mura non si ha preoccupazione alcuna di preservarle. Da questo momento il paese non avrà che un solo lato con le mura ancora visibili. In una foto degli inizi del ?900 da S. Rocco si vedono ancora cinque torrioni e la cinta muraria in buono stato di conservazione. Ultimamente, ed esattamente nel 1992, il PIANO DI RECUPERO DEL CENTRO STORICO dell’Ing. Mario Narducci ha evidenziato, tra l’altro, anche il problema della cinta muraria. E’ pregio del lavoro aver ricostruito, tramite il Catasto Onciario del 1753, fatto oggetto di un accurato studio da parte del prof. A. Anzivino, la toponomastica antica e il perimetro delle mura cittadine e delle circa venti torri che si ergevano a regolare distanza fra loro. Il prezioso lavoro ha evidenziato che alcuni torrioni sono stati inglobati nelle abitazioni  e sono ancora visibili tracce di mura antiche in Largo della Libertà, in via Buttazzi, in via Madonna della Neve, in via Daniele Mafia e in via Manin.

Cosa resta di tutto questo patrimonio?

Oltre alle torri e ad una piccola parte delle mura visibili in via Castello, ci sono PORTA GRECI, nota anche col nome di porta Ecana  (forse perché immetteva su un ramo della via Herculea, che attraverso il nostro paese, proseguiva per Aecae) e PORTA NUOVA, che molto probabilmente fu l’ultima ad essere aperta, tra il XV e il XVI secolo, con la costruzione del palazzo della famiglia Scalzi o forse verso la fine del XIV secolo quando, costruita la nuova chiesa si rese necessario aprire un varco nella cinta muraria per avere un accesso più prossimo al complesso abbaziale, che era l’edificio religioso più prestigioso e dove ancora celebravano messa i commendatari e che era al centro di aspre lotte per il suo possesso. Prese il nome di Porta Nuova così come, nel 1544, prese il nome di Fontana Nuova l’attuale fontana istoriata in contrapposizione alla Fontana Vecchia. Porta Greci ha un notevole basamento e conserva intatto il suo impianto alto medievale: sono ancora visibili i fori degli alloggiamenti dei cardini delle massicce porte. Porta Nuova lascia intuire un momento costruttivo successivo e il rafforzamento dei lati mediante muri di contrafforte a mo’ di sperone. Sono le uniche, se si eccettua Porta San Giovanni, della quale rimane il ricordo in un documento fotografico degli inizi del ‘900, che veramente hanno superato il tempo anche a dispetto del ripristino effettuato alle “PORTE” del paese dall’Amministrazione Comunale nel 1862.

Porta S. GIOVANNI

 

Palazzo della famiglia PALAZZO

Ubicata in via Daniele Maffia, al numero civico 12, fu completata nelle forme attuali,nel 1793, da Pasquale PALAZZO; su quel suolo vi era una modesta abitazione della stessa famiglia. Nel 1802 la troviamo censita al n. 84 dello “STATUS   ANIMARUM”. Vi abitavano Pasquale PALAZZO, di anni 44( nato il 23 maggio 1757 in Orsara ), figlio di Nicola e Giovanna Santolupo di Orsara, la moglie Maria Gesualdi, di anni 20, figlia di

Saverio ed Angela Norc(i)a di Panni, il figlioletto neonato, Nicola, ed i figli Giuseppe, di anni 13, e Francesco , di anni 15, avuti dalla prima moglie Catarina Frisoli, defunta. Prima dell’ingresso principale, in un locale a pianterreno ,facente parte dell’immobile, vi abitava il bracciale Pasquale Zottola, di anni 27, figlio di Giovan Pietro ed Antonia Fatibene, con la moglie Rosa Terlizza, figlia di Pasquale e Angela Laucella, e la figlioletta Antonia, di anni 3. Pasquale era un massaro di pecore e, come ha evidenziato lo studio di A.Anzivino[1], apparteneva a quella categoria di cittadini che godeva di una buona posizione economica e sociale. Ne è la riprova il palazzo che si fece erigere nelle attuali forme, cui fa da cornice lo stupendo portale, opera delle maestranze orsaresi.Probabilmente il progetto originario era di più ampio respiro, come quello di via Trento. Subito dopo l’ingresso, all’interno, una meravigliosa scala in pietra, ben conservata nella sua originaria ideazione, immette al piano superiore. Una serie di archi in pietra viva rendono caratteristico l’immobile e ne fanno, insieme al palazzo Lamonica di Via Trento, uno degli edifici più interessanti extramoenia.Il padre Nicola, bracciale, è censito nel catasto conciario del 1753 per 12 once.Egli aveva 29 anni, la moglie Giovanna Santolupo 24 e 2 figli:Palma di anni 4 e Giuseppe infante. In questo periodo la famiglia abitava in una casa locata, di proprietà di Domenico Vara.

La storia dei Palazzo è abbastanza singolare e sta a dimostrare quanto la nostra comunità costituisse un’occasione per coloro i quali erano abbastanza intraprendenti e avevano  voglia di migliorare. Il capostipite di questa famiglia è Giuseppe, detto il Martinese, perché originario di Martina Franca. Nato nel 1674, come si evince dallo Status Animarum del 1728, giunge ad Orsara agli inizi del secolo e nel 1707 sposa Angela Ingrossa, dalla quale ha solo il figlio Vito, nato nel 1708.Egli abita con la famiglia in una casa di sua proprietà “ alla strada che scende alla Fontana avanti al Palazzo del Sig. Duca di Bovino,l’attuale Via Umberto I .  Nel febbraio del 1715 gli muore la moglie e dopo circa cinque mesi ,il 28 luglio 1715 sposa in seconde nozze Palma Zottola. Lo troviamo censito nello Status Animarum con il seguente nucleo familiare: Giuseppe di anni 54, la moglie Palma Zottola di anni 40, la figlia Antonia Giroloma di anni 9 e mesi 6, il figlio Nicolò di anni 6 e mesi 2 e Vito, di anni 19, figlio di Giuseppe e Angela Ingrossa, prima moglie. Abita nella strada alla Piazza che porta a Piazza Mazzini, che presumibilmente dovrebbe essere Via Regina Margherita o Via Mentana. Nello Status animarum del 1736 abita “l’altra strada che porta alla Madonna della neve”.Il nucleo familiare è sempre lo stesso. Varia, naturalmente l’età dei suoi membri: 62 anni Giuseppe, 52 Palma,

17 A. Giroloma, 13 Nicolò e 27 Vito. Il 10 gennaio 1745 il figlio Vito si unisce in matrimonio con la vidua Isabella Alfani. Molto probabilmente la  buona condizione economica della vedova spinse Giuseppe a sistemare il figlio avuto dalla prima moglie e anche la speranza di poter migliorare la propria condizione. Questo matrimonio, però già attesta una condizione economica  in crescita perché difficilmente gli Alfani avrebbero permesso un matrimonio privo di prospettive future. E’ pur vero che Isabella era vedova, ma il nome Alfani era una garanzia: era un’epoca di profonda crisi e proprio in quegli anni si abbattevano violenti carestie o terribili inverni che mettevano a dura prova la parte più misera della popolazione( spesso venivano rinvenuti cadaveri per le campagne, essendosi i miseri spinti a cercare qualcosa da mangiare anche con l’imperversare del maltempo). Due anni dopo, il 19 dicembre 1747 anche  Nicolò prende moglie e sposa Giovanna Santolupo, figlia di Luca e Agnese Frisoli.  Nel 1753 troviamo censito Nicola per 12 once e abita in una casa di proprietà di Domenico Vara, probabilmente in via Belfiore, la stradina che, a settentrione, gira intorno al palazzo Spontarelli.Nel 1758 Nicola è censito nello Status animarum con il seguente nucleo: Nicolò di anni 31, la moglie Giovanna S. Lupo (figlia di Luca) di anni 29, la figlia Palma di anni 9 e il figlio Pasquale di mesi 8.

PASQUALE, dunque, nacque nel 1758 ed era poco meno che trentacinquenne quando portò a termine la costruzione della sua residenza. Dal 1753 al 1784 la posizione economica è abbastanza florida. Pasquale nel 1784, all’incirca, prende in moglie Catarina Frisoli e da lei ha due figli: Giuseppe e Francesco. In un secolo la famiglia aveva conquistato un posto di rilievo nella comunità e la condizione economica era tale da permettere a Pasquale di costruire nell’ultimo decennio del secolo XVIII una bella casa palazziata, a ridosso delle mura e vicino alla Chiesa di Maria SS. della Neve. La data incisa sul bel portale insieme al nome ci danno, molto probabilmente, l’anno di inizio dei lavori e il committente: DIO CI VEDE –  PASQUALE PALAZZO  1793. Purtroppo alla fine  del secolo muore Catarina e poco dopo, nel 1801 Pasquale convola a nuove nozze con Maria Gesualdi di anni 20, di Panni. L’opera di recupero effettuata ha cercato di conservare buona parte del vecchio impianto: il proprietario è giustamente fiero del lavoro effettuato ed è pronto a far visitare l’immobile a chi sa apprezzare le bellezze architettoniche che i nostri antenati seppero ideare per dare un senso alla loro esistenza, ma anche per curare l’estetica, che era parte integrante di un ceto emergente, quel ceto che rese il paese un punto di riferimento per operai stagionali (in particolare per la mietitura), per allevatori in cerca di buoni capi bovini, ovini, caprini ed equini da acquistare e per i numerosi sensali che, durante le fiere di maggio, del 5 agosto e di settembre(Il tratturo Alfidena – Ascoli Satriano passava per Crepacore, Orsara e Giardinetto, dove c’era una sottostazione), riuscivano a fare lucrosi affari, tanto da costituire una vera e propria categoria di lavoratori, quella degli “Intromettitori e sensali”.

 

 

 

 

 

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[1] A. Anzivino, Settecento- Capitastrum Ursariense (Società orsarese nel XVIII secolo), Studio Stampa, Foggia 1993

 

 

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